Storie dalla Corsia

di Marco Burla in arte Dott. DinDon

 

dott. Din Don con ukulele

 

Questa non è propriamente una storia di corsia, perché è accaduta fuori dall’ospedale, ma se non ci fosse stato il nostro intervento in ospedale non ci sarebbe stata nemmeno questa storia.

Per raccontarvela, la prendo un po’ larga.

Una cosa molto particolare del nostro lavoro come clown di corsia, che ho riscontrato anche nei miei colleghi, è la relazione che le persone instaurano con noi. Non parlo soltanto dei bambini, ma in questo caso mi riferisco soprattutto agli adulti, in particolare ai genitori.

Pur non avendo dei costumi altisonanti e trucco appariscente, quando abbiamo il naso rosso, che sia di plastica, di gommapiuma o di rossetto non ha importanza, le persone subito si dimenticano o sembrano dimenticarsi, che dietro quella piccola “maschera” ci sono delle persone come loro, con le loro vite, i loro problemi, le loro stanchezze. Da quel momento per loro tu sei un clown, qualcuno che va oltre la persona che sta dietro al naso rosso. Diventi per loro una sorta di supereroe, un personaggio famoso, una star, una persona speciale, un clown appunto! Diventi in qualche modo un qualcuno che è lì per stare con loro, con i loro bambini, per divertirli sì, per fargli trascorrere del tempo, ma soprattutto per ascoltarli, per renderli unici, per far diventare anche loro un po’ speciali come il naso rosso ha reso speciale a te che lo stai indossando.

Il clown è lì per i loro bambini, ma anche per loro, per astrarli per un momento da quella che è la vita reale, dalla malattia che stanno affrontando insieme ai loro bimbi, dal lento scorrere delle giornate del ricovero, dalle preoccupazioni e dal dolore che questi momenti portano con sé. Tu, clown, sei lì non per far dimenticare questi momenti, non per farli sembrare meno difficili, perché purtroppo i clown non hanno questo tipo di super poteri. No, tu, clown, sei lì per dargli una mano, per sostenerli, per condividere con loro questa lotta che stanno conducendo a fianco dei loro bambini contro la malattia, qualunque essa sia. Lavorando in ospedale, abbiamo occasione, purtroppo, di vedere molti livelli differenti di malattia, eppure la forza che i genitori mettono nella cura della malattia del bambino, qualunque essa sia, è sempre la stessa. A volte, anche a noi fa strano vedere tanta preoccupazione per un’ allergia o una febbre troppo alta, quando entri in reparti dove queste cose sono il minimo che si possa avere, eppure tutto ciò mi appare comprensibile, cosi come mi appare chiaro l’ effetto clown in ospedale.

Questo effetto mi appare ancor più chiaro quando, finito il turno, tolto il costume e il naso rosso, ritorni nel mondo della persona normale che sei e quando nell’incrociare nel corridoio del Meyer la mamma o il papà che avevi visto cinque minuti prima e coi quali avevi parlato, scherzato, riso insieme a loro e al loro bimbo, ora non ti riconoscono, non hanno il volto rilassato che avevano poco fa quando c’era il clown lì con loro, non hanno la voglia di conversare con te, di parlarti, di condividere la loro situazione perché per loro sei uno sconosciuto, una persona tra tante. E allora ti fermi un attimo e ci pensi. In effetti è vero. Tu non li conosci e loro non conoscono te. Eppure poco prima, poco fa ci stavi parlando, ci stavi scherzando, ci stavi condividendo, e loro con te, attimi preziosi delle vostre vite. Allora capisci che non sei uno sconosciuto, una persona tra tante, ma semplicemente, ora, tu non sei più un supereroe, una star- Ora semplicemente non sei più un clown di corsia.

E la storia di corsia dove l’ ho lasciata? Eccola.

La mia storia di corsia è alla Stazione di Rifredi, a Firenze. Una mattina che aspetto una persona che deve arrivare in treno e che, stranamente, mi vede arrivare in stazione con largo anticipo. Nell’attesa, rimango fuori a conversare con un amico, anche lui casualmente lì. Senza trucco e senza naso ma semplicemente io, come posso essere ora mentre scrivo questa storia. Mentre parlo con questo amico vedo una bimba con la mamma che la mattina precedente avevo visitato in stanza al Meyer, purtroppo per lei non per un braccio ingessato. Mi fa piacere vederle fuori dall’ospedale e penso sarebbe bello andarci a parlare. Ma poi penso che non sono clown, che loro non mi riconoscerebbero, che forse non sarebbe il caso, che dovrei stare lì a spiegare loro diverse cose e, quindi, mi limito a rivolgere uno sguardo alla bambina e a continuare a parlare col mio amico. Ma in quello sguardo della bambina, e quello complice di lei alla mamma, capisco che invece loro hanno capito benissimo chi sono. Forse meravigliate anche loro nel trovarmi in “borghese”, lì al fresco sole invernale, in una stazione dei treni, ma soprattutto fuori dall’ospedale. Bè, allora vado da loro, ci parlo un momento, ci scambiamo un saluto e auguro loro una buona giornata e magari di incontrarci nuovamente, un’altra mattina, in un’altra stazione, in un’altra città…l’importante è che sia fuori da un ospedale.

E così, nel salutarle, io e il dottor DinDon siamo ora la stessa persona, normali ma anche un po’ speciali!

Sostieni il Dott. DinDon, aiutalo a portare sorrisi in ospedale