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Storie dalla Corsia

di Enrico Marconi in arte Dott. Rufus

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Il Dottor Rufus entra in azione alle 9 di mattina al padiglione Salviati dell’Ospedale Bambino Gesù.

È accompagnato dal Dottor Fico Secco, esperto in puzzologia applicata. Iniziano il loro giro nel reparto partendo dalla sala d’aspetto dell’ambulatorio. E poi i due affrontano le stanze.

Oggi la stanza che sta all’angolo e che è anche un po’ più grande delle altre ha due inquilini molto diversi, uno Matteo ha circa 4 anni ed è molto vivace e viaggia con noi dal letto, superandoci con la sua fantasia. È un appassionato di treni e ci fa salire sulla sua locomotiva immaginaria e io faccio il capostazione.

Ma c’è anche un compagno di stanza, Timothy. È minuscolo, non ha neanche un anno, il suo corpicino quasi si perde nel lettone dell’ospedale. Sono tre settimane consecutive che lo incontriamo qui, in questo lettino. La mamma e la nonna sempre al suo fianco sedute su due poltroncine che quasi le inghiottono. Le altre volte non siamo mai riusciti ad attirare la sua attenzione perché i suoi occhietti si chiudevano vinti da una stanchezza enorme, da un dolore che non si riesce ad accettare.

Quando ho visto che era ancora lì mi sono sentito schiacciato dall’impossibilità di fare qualcosa per lui ma ci siamo avvicinati lo stesso, ho imbracciato il mio fido Lele (il mio ukulele) e Fico Secco ha provato con delle bolle. Questa mattina il piccolo Tim è un po’ più sveglio ha aperto una fessura nei suoi occhietti ci sta ascoltando e guardando, poi una bolla dispettosa si va a posare sulla sua gamba, resta lì per un secondo ferma come per incanto e poi puff! E Timothy ci guarda, ne vuole ancora. Continuiamo con altre bolle e lo sguardo si apre sempre di più. Allora Fico Secco sfodera i suoi foulard volanti, sembrano ipnotici e la bocca di Timothy si allarga in un bellissimo sorriso, la nonna e la mamma si alzano dalla poltrona e lo guardano con un po’ di stupore.

La sensazione è strana, quasi mi si intrecciano le dita sull’ukulele e sbaglio gli accordi poi mi riprendo.

È arrivato il momento di lasciare la stanza all’angolo del corridoio ma prima di uscire dobbiamo prendere il treno di Matteo per attraversare la porta e tornare nel corridoio.

Storie dalla Corsia

di Marco Burla in arte Dott. DinDon

 

dott. Din Don con ukulele

 

Questa non è propriamente una storia di corsia, perché è accaduta fuori dall’ospedale, ma se non ci fosse stato il nostro intervento in ospedale non ci sarebbe stata nemmeno questa storia.

Per raccontarvela, la prendo un po’ larga.

Una cosa molto particolare del nostro lavoro come clown di corsia, che ho riscontrato anche nei miei colleghi, è la relazione che le persone instaurano con noi. Non parlo soltanto dei bambini, ma in questo caso mi riferisco soprattutto agli adulti, in particolare ai genitori.

Pur non avendo dei costumi altisonanti e trucco appariscente, quando abbiamo il naso rosso, che sia di plastica, di gommapiuma o di rossetto non ha importanza, le persone subito si dimenticano o sembrano dimenticarsi, che dietro quella piccola “maschera” ci sono delle persone come loro, con le loro vite, i loro problemi, le loro stanchezze. Da quel momento per loro tu sei un clown, qualcuno che va oltre la persona che sta dietro al naso rosso. Diventi per loro una sorta di supereroe, un personaggio famoso, una star, una persona speciale, un clown appunto! Diventi in qualche modo un qualcuno che è lì per stare con loro, con i loro bambini, per divertirli sì, per fargli trascorrere del tempo, ma soprattutto per ascoltarli, per renderli unici, per far diventare anche loro un po’ speciali come il naso rosso ha reso speciale a te che lo stai indossando.

Il clown è lì per i loro bambini, ma anche per loro, per astrarli per un momento da quella che è la vita reale, dalla malattia che stanno affrontando insieme ai loro bimbi, dal lento scorrere delle giornate del ricovero, dalle preoccupazioni e dal dolore che questi momenti portano con sé. Tu, clown, sei lì non per far dimenticare questi momenti, non per farli sembrare meno difficili, perché purtroppo i clown non hanno questo tipo di super poteri. No, tu, clown, sei lì per dargli una mano, per sostenerli, per condividere con loro questa lotta che stanno conducendo a fianco dei loro bambini contro la malattia, qualunque essa sia. Lavorando in ospedale, abbiamo occasione, purtroppo, di vedere molti livelli differenti di malattia, eppure la forza che i genitori mettono nella cura della malattia del bambino, qualunque essa sia, è sempre la stessa. A volte, anche a noi fa strano vedere tanta preoccupazione per un’ allergia o una febbre troppo alta, quando entri in reparti dove queste cose sono il minimo che si possa avere, eppure tutto ciò mi appare comprensibile, cosi come mi appare chiaro l’ effetto clown in ospedale.

Questo effetto mi appare ancor più chiaro quando, finito il turno, tolto il costume e il naso rosso, ritorni nel mondo della persona normale che sei e quando nell’incrociare nel corridoio del Meyer la mamma o il papà che avevi visto cinque minuti prima e coi quali avevi parlato, scherzato, riso insieme a loro e al loro bimbo, ora non ti riconoscono, non hanno il volto rilassato che avevano poco fa quando c’era il clown lì con loro, non hanno la voglia di conversare con te, di parlarti, di condividere la loro situazione perché per loro sei uno sconosciuto, una persona tra tante. E allora ti fermi un attimo e ci pensi. In effetti è vero. Tu non li conosci e loro non conoscono te. Eppure poco prima, poco fa ci stavi parlando, ci stavi scherzando, ci stavi condividendo, e loro con te, attimi preziosi delle vostre vite. Allora capisci che non sei uno sconosciuto, una persona tra tante, ma semplicemente, ora, tu non sei più un supereroe, una star- Ora semplicemente non sei più un clown di corsia.

E la storia di corsia dove l’ ho lasciata? Eccola.

La mia storia di corsia è alla Stazione di Rifredi, a Firenze. Una mattina che aspetto una persona che deve arrivare in treno e che, stranamente, mi vede arrivare in stazione con largo anticipo. Nell’attesa, rimango fuori a conversare con un amico, anche lui casualmente lì. Senza trucco e senza naso ma semplicemente io, come posso essere ora mentre scrivo questa storia. Mentre parlo con questo amico vedo una bimba con la mamma che la mattina precedente avevo visitato in stanza al Meyer, purtroppo per lei non per un braccio ingessato. Mi fa piacere vederle fuori dall’ospedale e penso sarebbe bello andarci a parlare. Ma poi penso che non sono clown, che loro non mi riconoscerebbero, che forse non sarebbe il caso, che dovrei stare lì a spiegare loro diverse cose e, quindi, mi limito a rivolgere uno sguardo alla bambina e a continuare a parlare col mio amico. Ma in quello sguardo della bambina, e quello complice di lei alla mamma, capisco che invece loro hanno capito benissimo chi sono. Forse meravigliate anche loro nel trovarmi in “borghese”, lì al fresco sole invernale, in una stazione dei treni, ma soprattutto fuori dall’ospedale. Bè, allora vado da loro, ci parlo un momento, ci scambiamo un saluto e auguro loro una buona giornata e magari di incontrarci nuovamente, un’altra mattina, in un’altra stazione, in un’altra città…l’importante è che sia fuori da un ospedale.

E così, nel salutarle, io e il dottor DinDon siamo ora la stessa persona, normali ma anche un po’ speciali!

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Storie dalla Corsia

di Enrico Marconi
in arte il dott. Rufus

Dr. Rufus

Dr. Rufus

Lavorare come clown in ospedale ti fa incontrare numerose storie, le più diverse, a volte dolorosissime. Si intrecciano sguardi che non avresti mai avuto l’opportunità di incrociare in strada.

Vedi che su di te si posano speranze, squarci di serenità, desideri. A volte sono le mamme e i papà che cercano in noi un appiglio per far tornare a giocare i loro figli come se non fossero in ospedale, altre volte sono i bambini che vedono in noi clown l’opportunità di aprire una finestra immaginaria e volare via lontano, trasformando il letto in una nave dei pirati, in un’astronave spaziale o nel palcoscenico della fantasia, anche il personale dell’ospedale si ferma con noi incuriosito da una spilla da un cappello e altre volte ci richiedono di allentare le preoccupazioni di un bambino durante un prelievo o una medicazione.

L’altro giorno in una stanza al Bambin Gesù c’era un bambino di circa 10 anni, ho pensato che potesse essere interessato ad incontrare il mio pupazzo, lui è un super eroe, si chiama Sandro d’altra parte lo si capisce anche dal vestito: ha una bella S rossa sul petto. Super Sandro non sempre riesce a volare, per farlo ha bisogno di un soffio magico un po’ speciale…una pernacchia. E chi meglio del bambino poteva aiutare Sandro? Dopo lo spernacchiamento il Super eroe ha spiccato il volo ma ha sbagliato rotta ed è entrato in bagno tirando lo scarico del water, tutta questa confusione ha fatto molto ridere il bimbo che aveva una risata molto particolare: rideva con la bocca chiusa buttando fuori l’aria dal naso. Il fatto è che era molto raffreddato, col naso completamente tappato e durante il volo di Super Sandro le risate gli hanno fatto uscire dal naso un super tappo di muco liberandogli il naso, lo so che fa un po’ schifo ma non potete immaginare la felicità della mamma che è schizzata in piedi dicendo: “Finalmente si è stappato il naso! Era da ieri che soffiava…ma niente!”

Questa storia è uno dei momenti che mi ha fatto più divertire nella mia esperienza di clown ospedaliero. Non me l’aveva mai detto nessuno prima che i clown ospedalieri hanno un ottimo effetto anche come mucolitico!

Storie dalla corsia

di Gianna Deidda
in arte Dott. Amelia

Guardo su facebook la faccia allegra di B. che mostra la lingua e si schiaccia il naso con un dito in una smorfia buffa. In un’altra foto sorride a tutti denti con sua madre o fa le boccacce abbracciata al fidanzatino. Ha compiuto 18 anni ad agosto, una mia parente di T. mi ha chiamata mentre ero in vacanza perché le facessi gli auguri a nome di tutti i dottori di Soccorso Clown.

L’ho conosciuta cinque anni fa nel reparto oncologia del Meyer. Quando siamo entrati nella sua stanza, io e il dottor Fresco, c’era un vassoio di paste sul letto, e intorno mamma, babbo, fratello, e qualche altro della famiglia. “Volete favorire?” “No, grazie, siamo in servizio, ma che festa è? “

Il dottor Fresco è più attento di me all’accento sardo: “Dottoressa, questi mi sa che sono suoi conterranei”

“Di dove siete?” “Di T.” “Il paese di mia nonna!”

Si mettono a ridere, pensano che sia una battuta del clown, invece è vero.

Metto da parte idealmente il naso da clown e faccio la seria.

“No, davvero, mia bisnonna faceva Cambedda, di cognome”

Cominciamo la solita indagine sull’albero genealogico familiare che segue tutte le presentazioni fra sardi: “ Ma Cambedda, quali? A T. ci sono due famiglie Cambedda: Cambedda i pastori o Cambedda i commercianti? “ Dopo un elenco di nomi di parenti (che non conosco personalmente) concludiamo che sono i Cambedda pastori.

Loro sono qui da qualche mese, il padre fa la spola fra Firenze e T., cercando di conciliare lavoro e famiglia, la mamma è fissa qui, ospite, insieme ad altri genitori di bambini lungodegenti, in una casa di accoglienza messa a disposizione dall’ospedale.

Li invito a un mio spettacolo che c’è proprio in quei giorni: “ Combinazione, è proprio su un’intervista fatta negli anni ’70 a una donna di T., Maria P., la conoscevate? “ Si ricomincia: a T. c’erano due Maria P., quale delle due?

Dopo un’altra breve indagine arriviamo a una conclusione, e qualche giorno appresso tutta la famiglia è allo spettacolo, anche B., avvolta in sciarpe di lana e cappuccio, perché è inverno e si sono pure persi nella nebbia prima di trovare il teatro.

Quando vado a T. con il mio spettacolo, è estate. C’è la festa del patrono, San Giacomo, ma non è solo per questo che il paese è tutto impavesato di bandierine colorate. Le strade sono attraversate da striscioni con la scritta: W B! Bentornata B.! ripetuta anche sull’asfalto. B. è tornata da Firenze qualche giorno prima, a bordo del taxi Milano 25 di Caterina Bellandi, come mi raccontano compiaciuti e un po’ stupiti i compaesani, che l’hanno accolta trionfalmente insieme alla sua strana accompagnatrice.

Nel giorno della festa vedo B., in un gruppetto di ragazzine: con le guance rosse dall’eccitazione, un fazzolettino intorno alla testa, va a preparare i culurgiones per la gara che contrappone i quattro quartieri storici del paese e poi li riunisce tutti nella mangiata finale. Mi saluta, sorride e scappa via.

Guardo le sue foto su facebook, l’allegria che sembra incontenibile, le sue smorfie da clown, i suoi bei capelli castani, i denti che brillano in un sorriso sfrontato.

Clown in corsia è anche questo.

Storie dalla corsia

di Giacomo Gosti
In arte Dott. Fresco

Stamani io e Din Don al Meyer, di solito coppia effervescente, bella energia.
La mattinata inizia storta con una serie di bambini piangenti in Dh dismetabolico che non si vogliono fare il prelievo.
Lavoriamo fra lo stress delle infermiere cercando di fare il possibile. Alla fine riusciamo a calmare un bambino piccolo che si convince a fare il prelievo…momenti di tensione… Il bambino guarda noi mentre gli infermieri cercano di bucarlo…si gioca tutto sul filo… Lo bucano… È fatta!
NO non trovano la vena… Decidono di desistere! Tanta fatica per nulla! vabbè il bambino si è divertito magari la prossima volta sarà più tranquillo.

Andiamo in oncologia, prima stanza… Non faccio in tempo ad entrare che una mamma mi si butta al collo (mi sembrava di conoscerla…) piangente. Din don va dentro a “lavorare” con la bimba io fuori appartato con la mamma che si sfoga.
Una bambina che viene sempre alle letture animate che faccio in biblioteca (ecco perchè la mamma mi era familiare), anche sabato scorso era lì.
Lunedì e martedì febbre alta, mercoledì mattina esami del sangue, mercoledì pomeriggio ricovero d’urgenza…leucemia!
Sto con la mamma cercando di ascoltarla mentre dentro mille emozioni e mille pensieri mi sconvolgono!!!
Torniamo in stanza finiamo l’intervento alla grande, la bambina si diverte. Poi continuiamo il reparto ma sinceramente potevo finirla lì.
Finiamo con un giro al pronto soccorso e lì (almeno stamani) i genitori con i musi lunghi per la febbre o il graffio del figlio facevo proprio fatica a reggerli!

Clown in corsia è anche questo!

Storie dalla corsia

di Martina Consoloni
in arte Dottoressa Ghigola

La dottoressa Ghigola e Umberto, il suo topo, si sono svegliati presto stamattina. Hanno un grosso impegno: devono andare in ospedale.

“Dove sono le scarpe, e i calzini, dove sono i calzini? Umbertooo aiutamiii”

Dopo mille peripezie, eccoli finalmente in ospedale. La dottoressa Ghigola imbraccia il suo chitarrino, mette su il cappello e insieme ai suoi colleghi, il Dottor Lesso e Umberto, inizia a far visita ai piccoli pazienti.

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Storie dalla corsia

di Gianna Deidda
in arte Dottoressa Amelia

Eravamo  a Massa, nel reparto di cardiologia pediatrica. Ero insieme al dottor Billi, esperto in bolle di sapone. Entriamo nella stanza di un bambino keniota che era stato operato da poco. Aveva, se non ricordo male, sette anni, ma sembrava più piccolo, un bimbo magro magro con due grandi occhioni. Come ci dice l’educatore che lo accompagna, un ragazzo di un’organizzazione per la cooperazione internazionale che gli fa anche da interprete, l’operazione al cuore è riuscita e fisicamente sta abbastanza bene, ma ha paura di alzarsi dal letto, e così non cammina.

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Storie dalla corsia

di Gianna Deidda
in arte Dottoressa Amelia

Forse per un’istintiva auto protezione tendo a dimenticare i singoli episodi del lavoro in ospedale. È come se il lavoro in ospedale appartenga a un’area protetta della mente: quando il turno finisce la porta della stanza della memoria si chiude silenziosamente sui visi e i sorrisi dei bambini e sulle loro storie insieme alla porta scorrevole dell’ospedale. È più facile che ricordi l’azione ben riuscita di un clown-partner, anche perché mi serve di lezione per un’altra volta, o che mi rimanga impressa quell’espressione inconfondibile, di concentrata dolcezza e poi di allegria trionfante, che assume il suo viso nell’istante in cui la gag, il gioco di prestigio, la battuta, sta per avere effetto, poco prima che il bambino cui è diretto il gioco passi dal pianto al riso, dall’indifferenza all’attenzione, dall’apatia a un gesto di risposta. Continua a leggere

Storie dalla corsia

di Adriana Lucis

in arte Dottoressa Girandolina

Il mio clown, la dott.ssa Girandolina, è anche il mio alter ego comico, la mia amica e la professionista che sa come gestire le emozioni di fronte al dolore, sa ridere e far divertire, si prende in giro e si appassiona a tutto per quanto esuberante e pasticciona. Va a sbattere dovunque ma sa anche come trovare geniali soluzioni!
E’ una “cardiologià”(da cardiologia) che non sa dove si trova il cuore e si fa aiutare dai bambini a cercalo per sentirne i battiti che diventano il bellissimo ritmo per iniziare una canzone. è sognante e leggera come la girandola che porta in testa e la rappresenta ma soprattutto ama la musica che sempre l’accompagna. Girandolina non potrebbe esserci senza il suo ukulele e il carillon!

La musica è linguaggio universale che va oltre ogni confine e noi clown-dottori siamo stati formati da SOCCORSO CLOWN ad essere preparati anche in questa disciplina. Fra le mie esperienze più belle in ospedale ci sono quelle di poter regalare la musica, a volte seria altre volte con improbabili strimpellate divertenti. SEMPRE e comunque arriva come mezzo di conforto, distrazione e divertimento per chiunque incontriamo nei nostri interventi fra cui anche tante famiglie straniere.

Amo dedicare anche serenate ai genitori o al personale ospedaliero che si diverte e distrae respirando una ventata d’aria fresca e considerazione. 

Un esempio molto significativo è con i neonati. Spesso si considerano i più piccoli come casi dove è difficile intervenire perché non capiscono, non hanno i sensi ancora sviluppati e quasi non viene ritenuto necessario il nostro intervento dai genitori quando ci vedono arrivare e invece… fa bene a loro e, sapendo noi come procedere, aiuta tantissimo i piccini! Reagiscono alla nostra presenza attraverso la musica ed interventi visivi delicati rilassandosi e smettendo di agitarsi e piangere.

Un bambino che aveva appena fatto una visita medica, iniezioni e piangeva disperatamente si è chetato, come tanti, appena ha ascoltato il suono delle corde.

Ancora, in una stanza buia e silenziosa, al Bambin Gesù di Roma, mentre una mamma allattava il bambino e l’altra lo cullava in braccio, io e la collega siamo entrate delicatamente e abbiamo fatto il nostro intervento su loro permesso. L’atmosfera è diventata subito più leggera. Il piccolo in braccio si è incantato al volo dei fazzoletti colorati lanciati dalla collega mentre il neonato attaccato al seno, in costante tensione per il dolore della malattia, ha cominciato ad allentare rasserenandosi mentre io suonavo un pezzo dolcissimo all’ukulele. La mamma si è stupita sentendo la reazione del bambino che si abbandonava serenamente.

Rammento in particolare una neonata, in terapia intensiva all‘Umberto I, in stato catatonico da tempo che ha cominciato a reagire al gioco delle dita del mio maestro e direttore Vladimir Olshansky, il dott. Bobo, accompagnato dal suono di un piccolo sonaglio. La macchina che le monitorava il battito del cuore ha cominciato ad emettere un segnale sempre più forte. Noi ci siamo quasi spaventati chiedendo l’intervento del medico che felice ci ha detto di continuare perché finalmente la piccola reagiva a degli stimoli!

Un altro bel ricordo è stato con un bambino in reparto oncologico, che a causa della sua lunga obbligata degenza, è una vecchia conoscenza dei clown del Policlinico. Gli ho lasciato il mio ukulele (che è simile ad una piccola chitarra) e si è esibito in un liberatorio pezzo… diciamo “rock”! :O)

Noi non entriamo mai in contatto fisico con il paziente per rispetto della sua incolumità ma con i ricoverati di questo reparto entriamo in grande confidenza, rivedendoli spesso, e siamo a loro disposizione permettendogli di essere un po’ i loro burattini.
Ci sottoponiamo, come loro fanno con le terapie ed i dottori, alle loro volontà e tutto può accadere. Si può assistere, nel segreto di quella stanza, alla coppia clown che va a sbattere contro i muri, improvvisa corse in aeroplani e motociclette o condivide con i pazienti segreti di magie e gags!

Storie dalla corsia

di Gianna Deidda
in arte Dottoressa Amelia

Il secondo e il quarto sabato di ogni mese all’ospedale di Prato ci sono gli accompagnamenti in sala operatoria. Gli “accompagnamenti” consistono nell’intrattenere i bambini che devono essere operati (e i loro genitori, spesso molto più impauriti dei figli!) allo scopo di ridurre l’ansia prima dell’intervento. Il fine del nostro lavoro è sempre lo stesso, ma il modo in cui si svolge cambia a seconda della struttura ospedaliera. Si va dall’intrattenimento volante in sala d’aspetto, che coinvolge tutti i bambini presenti in quel momento, come al Meyer, a interventi che, come a Siena, possono durare molto a lungo, perché accompagniamo il bambino per tutto il tempo dell’attesa fino alla soglia, e a volte anche oltre la soglia, della sala operatoria.

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